
Molesta sessualmente una collega: legittimo il licenziamento
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13 Maggio 2021RAPPORTI FRA CONIUGI
(In)fedeltà coniugale. Ho una cliente, divorziata dal marito, che…
Redatto da Gianluca Denora
Il matrimonio non può fare a meno del vincolo di fedeltà. Se siamo d’accordo su questo (non tutti lo sono) dobbiamo capire fino a quando esiste la relazione di coniugio, e dobbiamo farlo superando categorie formali, cosa ormai pacifica, anche in giurisprudenza.
Ho una cliente, divorziata dal marito, che esita a esigere l’adempimento dell’obbligo di mantenimento. Prima di attivare il presidio penalistico (art. 570 c.p.) cerco di capire cosa muova l’indecisione della signora e, dopo una strenua persuasione circa l’utilità di fornirmi informazioni sulla crisi coniugale, vengo a sapere che la mia cliente frequenta abitualmente un altro uomo. Ecco perché costei ha timore di uno scontro frontale (si sa che il diritto penale non conosce, di per sé, mezze misure): la sentenza che ha condannato il marito non tiene conto della sua sopravvenuta “convivenza” con un nuovo compagno. In realtà non si tratta di una vera e propria convivenza, bensì di una frequentazione regolare, tale che il regime di vita della divorziata non ha beneficiato di un nuovo percettore di reddito.
Tanto premesso, per convincere la signora Carla (il nome è di fantasia) devo definire i margini applicativi dell’art. 143, comma 2, c.c. («Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà»), e specificare quando e come si applichi il vincolo di fedeltà, che la legge vuole oggi come elemento indefettibile dei rapporti di coniugio (è noto, tuttavia, che in Parlamento si discute da qualche anno con una certa ricorrenza dell’abolizione di questo dovere).
Orbene, che il matrimonio sia fondato su una comunione di vite non può essere discusso, quand’anche si ritenesse che le vite non siano quel perfetto incastro di due anime che si sono cercate e si sono trovate. Il “nome” matrimonio è tuttavia soggetto a un’evoluzione semantica, come attesta la contaminazione tra le varie forme di unione civile. Al di là della varietà semiologica, però, occorre riflettere sull’identità delle categorie, segnatamente sulla possibilità che dietro una forma si nasconda altro rispetto alle forme che prendono nomi diversi. Ad evitare un’eccessiva estensione del discorso (del resto, la mia cliente non ha alcun interesse alle coppie di fatto, et alia) devo occuparmi delle peculiarità dell’esperienza matrimoniale e del divorzio come celebrazione della sua crisi definitiva.
Come tutte le esperienze umane, o quasi, la vita matrimoniale vive di una sua fluidità; muove dalla passione e dall’entusiasmo del suo inizio, vive della complicità e dell’intimità che ne sorregge la quotidianità, fino al suo naturale epilogo: la scomparsa di uno dei coniugi. A volte, la capanna brucia prima e si consuma una crisi coniugale. Tutto questo la signora Carla lo sa bene, per averlo vissuto, e per aver subìto i fatti che hanno condotto un giudice terzo a dire al marito: devi garantire a tua moglie di mantenere il tenore di vita che aveva durante il matrimonio.
Cosa preoccupa la mia cliente? Il fatto che a un certo momento, consumata la separazione (qui nel senso di interruzione della consuetudine di vita, successivamente tutto il resto), lei possa aver violato il dovere di fedeltà che è sostanza del matrimonio. Per mia fortuna, la signora Carla ha un buon confessore, il quale saprà chiarirle (esonerando me) che la fedeltà alla quale siamo chiamati dall’alto non è un vestito da indossare per una sfilata di alta moda, bensì un valore da vivere nel matrimonio, nel matrimonio (la ripetizione non è un refuso).
Dopo aver spiegato alla mia cliente che il dovere di fedeltà cessa con lo scioglimento del vincolo (degli effetti civili, dice la legge) devo rispondere alle domande oggi più ricorrenti negli studi legali, che cominciano pressappoco così: ma su internet ho letto che…
Eccomi, dunque, a menzionare quanto la giurisprudenza ha recentemente ribadito, a beneficio di avvocati e clienti: «il giudice è chiamato ad accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal contegno oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi e, dunque, se sussiste un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, o se piuttosto, la violazione dei doveri di cui all’art. 143 c.c. sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale» (Trib. Torino, sez. VII, 17 settembre 2020, n. 3064); incisivo, App. Salerno, sez. II, 12 ottobre 2020, n. 1089, pone a carico di chi lamenta l’infedeltà “l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda … provare … l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà” (già Trib. Ancona, sez. I, 1° settembre 2020, n. 1063, e, autorevolmente, Cassazione civile, sez. I, 6 agosto 2020, n. 16735, già Cassazione civile sez. I, 14 febbraio 2012, n. 2059). Sono, sarebbero queste le dinamiche processuali che scaturirebbero da una (molto improbabile) accusa di tradimento rivolta alla signora Carla.
L’infedeltà, dunque, attiene alla costanza del matrimonio; con l’esordio della crisi coniugale il concetto di fedeltà si dissolve; a fortiori, chi è divorziato non ha nessuna soggezione a oneri di fedeltà, e può esigere che gli venga pagato il mantenimento. In mancanza, può procedere tranquillamente a contestare la violazione degli obblighi di assistenza familiare, chiamando l’inadempiente a risponderne anche davanti al giudice penale.
Per la lettura completa dell’articolo: Diritto e Giustizia
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LAVORO Licenziamento Molesta sessualmente una collega: legittimo il licenziamento Respinte le obiezioni difensive proposte dal legale del lavoratore. Condivisa dai Giudici la valutazione compiuta dall’azienda sulla gravità delle condotte tenute dal dipendente. Inevitabile, in conclusione, il licenziamento. (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 25977/20; depositata il 16 novembre) Legittimo il licenziamento del dipendente che ha molestato una collega. Sacrosanto, secondo i Giudici, il provvedimento adottato dall’azienda. A inchiodare il lavoratore, comunque, anche il comportamento irriguardoso avuto nei confronti di altre… LAVORO Licenziamento Molesta sessualmente una collega: legittimo il licenziamento Respinte le obiezioni difensive proposte dal legale del lavoratore. Condivisa dai Giudici la valutazione compiuta dall’azienda sulla gravità delle condotte tenute dal dipendente. Inevitabile, in conclusione, il licenziamento. (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 25977/20; depositata il 16 novembre) Legittimo il licenziamento del dipendente che ha molestato una collega. Sacrosanto, secondo i Giudici, il provvedimento adottato dall’azienda. A inchiodare il lavoratore, comunque, anche il comportamento irriguardoso avuto nei confronti di altre dipendenti (Cassazione, sentenza n. 25977/20, sezione Lavoro, depositata oggi). Passate ai ‘raggi X’ le condotte tenute da un impiegato di una società. Per l’azienda gli addebiti a lui mossi, ossia «avere pronunciato epiteti ingiuriosi nei confronti di alcune colleghe; avere posto in essere molestie sessuali nei confronti di una collega in particolare e di avere anche effettuato un accesso non autorizzato sul conto corrente del marito della donna», sono così gravi da rendere doveroso il suo licenziamento. A sorpresa, però, in Tribunale il lavoratore riesce a vedere dichiarata l’illegittimità del provvedimento emesso dalla società, e quest’ultima viene condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro e «a pagargli una indennità risarcitoria fino ad un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, detratto l’aliunde perceptum, oltre alla regolarizzazione contributiva assistenziale e previdenziale». A ribaltare i rapporti di forza provvedono i giudici d’Appello, accogliendo le obiezioni proposte dai legali della società e ritenendo corretto il licenziamento del lavoratore. A loro parere, difatti, sono dimostrati «gli addebiti contestati al dipendente» e sono lapalissiane «la giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione espulsiva». Infine, in secondo grado viene anche chiarito che era consentito alla società «verificare se il proprio dipendente aveva utilizzato indebitamente», come poi accertato, «gli strumenti messi a sua disposizione per fini esclusivamente professionali». Inutile si rivela il ricorso proposto in Cassazione dal lavoratore. Per i Giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, il licenziamento deciso dall’azienda è pienamente giustificato, visti i comportamenti tenuti dal dipendente. Innanzitutto, «la società ha dimostrato che i fatti addebitati al dipendente configuravano un inadempimento ai suoi obblighi contrattuali così elevato da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, non potendo il datore continuare a riporre fiducia in un dipendente che aveva tenuto condotte così gravi ed offensive nei confronti di una collega di lavoro». Logico, quindi, riconoscere la giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione disciplinare, poiché, osservano dalla Cassazione, «i fatti addebitati (comportamenti tenuti dal lavoratore consistiti nelle molestie sessuali avvenute in ufficio nei confronti di una collega e accessi non autorizzati sul conto corrente del marito della stessa collega)» sono di gravità tale da «integrare l’ipotesi della giusta causa di licenziamento e da giustificare, quindi, l’applicazione della massima sanzione espulsiva». In sostanza, «la particolare gravità della condotta porta a ritenere il comportamento del lavoratore idoneo a vulnerare, in maniera irreparabile, il peculiare vincolo di fiducia con la società e, quindi, a considerare il licenziamento sorretto da giusta causa». E per quanto concerne la proporzionalità del provvedimento adottato dall’azienda, non vi è dubbio che i fatti posti in essere dal lavoratore rappresentano «una grave lesione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro» e quindi «il datore di lavoro – tenuto a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro – non poteva non adottare una sanzione espulsiva, a fronte della gravità dei fatti accertati», chiosano dalla Cassazione. E ciò «a prescindere dalla rilevanza penale delle condotte, stante la autonomia, in tema di licenziamento, tra i due procedimenti, disciplinare e penale». Ultimo passaggio è quello riservato alla condotta consistita nell’essersi il lavoratore «procurato il nome del marito della collega» e nell’avere «visionato il conto corrente e riferito alla collega il saldo del conto». Su questo fronte il rilevamento operato dalla società si è concretizzato «a seguito di una richiesta di chiarimenti del titolare del conto corrente». Ciò significa che «gli accertamenti effettuati dalla datrice di lavoro rientravano nella categoria dei cosiddetti controlli difensivi», ossia «verifiche dirette ad accertare comportamenti illeciti e lesivi dell’immagine aziendale e costituenti, astrattamente, reato». Peraltro, «si è trattato di controlli disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa», e quindi «non può ritenersi in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori, atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta a terzi estranei all’impresa». Per chiudere il cerchio, comunque, dalla Cassazione annotano che «vi era un accordo sindacale, volto a disciplinare le modalità di svolgimento dei controlli sui lavoratori, in cui era prevista la utilizzazione da parte della società delle informazioni estratte nell’ipotesi di sussistenza di indizi di reati», e in questa vicenda «si rientrava certamente in questa fattispecie, perché, da un lato, il dato letterale dell’accordo richiedeva la presenza di “indizi” di reato e non di “prove” e, quindi anche la possibilità di effettuare una prima verifica sulla natura dei comportamenti commessi, ai fini del successivo inoltro alle autorità competenti; dall’altro, perché la contestazione, facendo riferimento ad accessi ad un conto corrente di terze persone e all’avere riferito notizie di esso a persona estranea al conto medesimo, era riferibile inequivocabilmente alla ipotizzabilità di illeciti penali» previsti dal Codice della privacy.