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4 Gennaio 2023Maestra aggressiva convinta di agire nell’interesse degli allievi: condannata per maltrattamenti
Impossibile ridimensionare i fatti e catalogarli come mero abuso dei mezzi di correzione. Irrilevante, in questa ottica, il fatto che alla maestra siano state riconosciute le attenuanti generiche poiché ella era intimamente convinta di operare nell’interesse degli alunni.
Redatto da Attilio Ievolella – Giornalista
Cass. pen., sez. VI, ud. 17 ottobre 2022 (dep. 15 novembre 2022), n. 43434
Il convincimento interiore della maestra – finita sotto processo per i comportamenti aggressivi tenuti in classe – di agire nell’interesse degli alunni non può ridimensionare l’accusa di maltrattamenti e tramutarla in quella di abuso dei mezzi di correzione. Ciò nonostante…
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Irrilevante, in questa ottica, il fatto che alla maestra siano state riconosciute le attenuanti generiche poiché ella era intimamente convinta di operare nell’interesse degli alunni. di Attilio Ievolella – Giornalista Cass. pen., sez. VI, ud. 17 ottobre 2022 (dep. 15 novembre 2022), n. 43434 Il convincimento interiore della maestra – finita sotto processo per i comportamenti aggressivi tenuti in classe – di agire nell’interesse degli alunni non può ridimensionare l’accusa di maltrattamenti e tramutarla in quella di abuso dei mezzi di correzione. Ciò nonostante, però, la sua “buonafede”, abbinata alla oggettiva difficoltà nella gestione del gruppo di allievi, può consentirle di ottenere una pena meno severa (Cass. pen., sez. VI, ud. 17 ottobre 2022 (dep. 15 novembre 2022), n. 43434). In classe. A finire sotto processo è una donna. A pendere sulla sua testa è l’accusa di maltrattamenti, a fronte dei comportamenti aggressivi da lei tenuti in classe nei confronti dei suoi giovanissimi alunni. Per i giudici di merito non ci sono dubbi: l’insegnante va condannata per i maltrattamenti compiuti ai danni di allievi minorenni a lei affidati. In appello, però, la pena viene rideterminata, con tanto di sospensione condizionale, soprattutto tenendo presente, precisano i giudici, «il convincimento interiore della maestra di agire nell’interesse degli alunni». Quest’ultimo dettaglio costituisce fondamento del ricorso proposto in Cassazione dall’avvocato che rappresenta la maestra. Nello specifico, il legale sostiene vada messo in discussione il reato di maltrattamenti attribuito alla sua cliente, essendo plausibile, invece, catalogare i fatti oggetto del processo come mero abuso dei mezzi di correzione, proprio tenendo presente la “buonafede” della maestra. Aggressività. I giudici di Cassazione ribattono sottolineando «la condotta maltrattante tenuta dalla donna ai danni dei minori affidati al suo compito educativo». Nello specifico è risultato accertato «l’utilizzo di aggressività fisica, oltre che verbale – quest’ultima manifestata con epiteti ingiuriosi gravi, anche di matrice razzista, volgari – ritenuta incompatibile, correttamente, con la finalità educativa dedotta dalla difesa» e «da ritenersi abituale in relazione alla loro frequenza nell’arco temporale» preso in esame. Impossibile, quindi, chiosano i magistrati, mettere in discussione il reato di maltrattamenti addebitato alla donna. E questa valutazione, aggiungono poi, non va in conflitto col «riconoscimento delle attenuanti generiche», riconoscimento frutto della valorizzazione del «convincimento interiore della maestra di agire nell’interesse dei minori» oltre che delle «non eccessive condotte reattive, in uno alle obiettive difficoltà di gestione del gruppo di alunni». Per maggiore chiarezza, infine, i magistrati di terzo grado ribadiscono che «per la configurabilità del reato di maltrattamenti è richiesto il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità». Di conseguenza, «deve escludersi che l’intenzione di agire esclusivamente per finalità educative sia elemento dirimente per fare rientrare gli abituali atti di violenza nell’abuso dei mezzi di correzione», in quanto «gli atti di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione, dovendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tradiscano l’importante e delicata funzione educativa». Infine, «sono irrilevanti, in ogni caso, le convinzioni soggettive – di tipo culturale o anche religioso – della persona», cioè genitore od educatore, che ha realizzato «la condotta maltrattante» in danno di minori. Cass. pen., sez. VI, ud. 17 ottobre 2022 (dep. 15 novembre 2022), n. 43434 risarcimento danni CIVILE e PROCESSO Usucapione L’usucapione del bene del coniuge dopo l’abbandono Redatto da Paola Paleari – Fonte: Diritto e Giustizia In mancanza della prova dell’interversio possessionis, anche il prolungato esercizio del potere di fatto sulla cosa non è utile ai fini dell’usucapione. (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 27411/19; depositata il 25 ottobre) Il fatto. L’attrice deduceva in giudizio di aver usucapito l’immobile di proprietà del coniuge per il fatto di avere continuato ad abitare il bene, oltre che svolto opere di manutenzione ordinaria straordinaria, dopo che il marito aveva definitivamente abbandonato la casa coniugale e se ne era disinteressato per un periodo superiore al ventennio. L’attrice, quindi, faceva istanza affinché venisse dichiarata l’inefficacia dell’atto di acquisto del convenuto, il quale aveva acquistato il bene immobile dal marito dopo che questi aveva lasciato la casa coniugale e prima del decesso di quest’ultimo. Il tribunale si pronunciava in favore della moglie ritenendo che dopo l’abbandono della casa familiare del marito, la moglie non poteva più vantare sul bene alcun possesso e che, pur in mancanza di un titolo qualificato, ne aveva acquistato il relativo possesso grazie al disinteresse del proprietario, elemento indicativo del venir meno di quest’ultimo dell’animus possidenti. La Corte d’Appello, tuttavia, riformulava la sentenza e rigettava la domanda di usucapione, accogliendo invece l’istanza di rivendica proposta dal legittimo proprietario, divenuto tale dopo l’atto di alienazione del bene in suo favore da parte dell’ex marito defunto. La Corte di Cassazione, infine, confermava la sentenza di appello. Ragioni della decisione. Secondo la Corte d’Appello, e secondo la Corte di Cassazione poi, ai sensi dell’art. 1141, comma 2, c.c., la moglie avrebbe potuto acquistare il possesso del bene immobile soltanto dimostrando l’interversione del possesso. La Corte d’Appello aveva infatti rilevato che l’iniziale relazione di fatto della moglie con il bene integrava una detenzione qualificata fondata sul rapporto di coniugio con il proprietario e possessore. La moglie avrebbe quindi dovuto acquistare il possesso fornendo la prova dell’interversione, ovvero dimostrando che, successivamente all’allontanamento del coniuge dalla casa, e per effetto di uno dei fatti previsti dall’articolo 1141, comma 2, c.c., aveva iniziato ad avere il godimento del bene uti dominos. Da ciò ne consegue che, anche se questa abbia dimostrato l’esecuzione di lavori di manutenzione, ordinari o straordinari che siano, essi non offrono di per sé alcun elemento per ritenere che la moglie abbia manifestato nei confronti del coniuge la volontà di tenere la cosa come propria, escludendolo dal possesso. In definitiva ne consegue che, in mancanza della prova dell’interversione del possesso, anche il prolungato esercizio del potere di fatto sul bene non è utile ai fini dell’usucapione. Inoltre, la rinuncia al possesso da parte del proprietario, nonostante il disinteresse mostrato, non può essere presunta, ma deve risultare da un’univoca manifestazione di volontà abdicativa, sicché la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è sufficiente a determinarne la perdita potendo il possesso essere conservato solo animo. Tutto quanto premesso l’interversione nel possesso non può quindi avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi; tale manifestazione deve quindi essere rivolta specificatamente contro il possessore in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e, quindi, tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua.22>