Redatto da Avv. Graziotto Fulvio – Fonte: Diritto.it
In tema di accertamento analitico-induttivo i maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa vanno calcolati determinando dapprima i ricavi accertati attraverso l’applicazione della percentuale di ricarico medio ponderato al costo del venduto accertato, detraendo poi i ricavi dichiarati.
Decisione: Ordinanza n. 19213/2017 Cassazione Civile – Sezione V
Il caso.
Una SRL si vedeva rettificare i ricavi a seguito di accertamento ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d) del D.P.R. n. 600/1973 ai fini IVA, IRPEG e IRAP.
In sede di appello, la Commissione Tributaria Regionale riduceva l’ammontare dei maggiori ricavi di oltre la metà portandoli a 198mila euro, risultanti dall’applicazione della percentuale media ponderata di ricarico del 16% al costo del venduto accertato, pari a 1.240.000 euro circa.
L’Agenzia delle Entrate propone ricorso in cassazione, che lo accoglie e rinvia alla Commissione Tributaria regionale con vincolo di attenersi al principio affermato.
La decisione.
Il Collegio riepiloga la vicenda e riassume i motivi di ricorso dell’Agenzia delle Entrate: «con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 dell’art. 75 (ora 109) t.u.i.r., in relazione all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. quantificato i maggiori ricavi della contribuente nella indicata misura di C 198.000,00 utilizzando l’importo – tra l’altro arrotondato in diminuzione – scaturito dall’applicazione della accertata percentuale di ricarico medio ponderato del 16% al pure accertato costo del venduto di C 1.241.748,00: importo invece costituente null’altro che il margine di guadagno conseguito dall’impresa in base alla ricostruita percentuale
di ricarico; che, con il secondo motivo, la ricorrente deduce in subordine, sulla base dei medesimi rilievi, insufficienza della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.».
La Cassazione ritiene entrambe le censure, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, fondate.
Precisa infatti che «dalla motivazione sopra trascritta, emerge evidente, da un lato, l’erronea considerazione dei dati fattuali pure accertati o comunque incontestatamente emergenti dagli atti e, dall’altro, conseguentemente, anche l’error in iudicando in cui è incorsa la Commissione tributaria regionale per aver identificato l’oggetto della rettifica cui è legittimato l’Ufficio in base all’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973, non nei maggiori ricavi emersi dalla verifica fiscale – pari alla differenza tra quelli induttivamente determinati dai verificatori in complessivi C 1.440.427,68 (applicando, sul costo del venduto accertato in C 1.241.748,64, la percentuale di ricarico media ponderata del 16%) e quelli invece dichiarati dalla contribuente (pari a C 976.919,73) – ma nel solo guadagno netto…
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