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Licenziamento
Molesta sessualmente una collega: legittimo il licenziamento
Respinte le obiezioni difensive proposte dal legale del lavoratore. Condivisa dai Giudici la valutazione compiuta dall’azienda sulla gravità delle condotte tenute dal dipendente. Inevitabile, in conclusione, il licenziamento.
(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 25977/20; depositata il 16 novembre)
Legittimo il licenziamento del dipendente che ha molestato una collega. Sacrosanto, secondo i Giudici, il provvedimento adottato dall’azienda. A inchiodare il lavoratore, comunque, anche il comportamento irriguardoso avuto nei confronti di altre…
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LAVORO Licenziamento Molesta sessualmente una collega: legittimo il licenziamento Respinte le obiezioni difensive proposte dal legale del lavoratore. Condivisa dai Giudici la valutazione compiuta dall’azienda sulla gravità delle condotte tenute dal dipendente. Inevitabile, in conclusione, il licenziamento. (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 25977/20; depositata il 16 novembre) Legittimo il licenziamento del dipendente che ha molestato una collega. Sacrosanto, secondo i Giudici, il provvedimento adottato dall’azienda. A inchiodare il lavoratore, comunque, anche il comportamento irriguardoso avuto nei confronti di altre… LAVORO Licenziamento Molesta sessualmente una collega: legittimo il licenziamento Respinte le obiezioni difensive proposte dal legale del lavoratore. Condivisa dai Giudici la valutazione compiuta dall’azienda sulla gravità delle condotte tenute dal dipendente. Inevitabile, in conclusione, il licenziamento. (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 25977/20; depositata il 16 novembre) Legittimo il licenziamento del dipendente che ha molestato una collega. Sacrosanto, secondo i Giudici, il provvedimento adottato dall’azienda. A inchiodare il lavoratore, comunque, anche il comportamento irriguardoso avuto nei confronti di altre dipendenti (Cassazione, sentenza n. 25977/20, sezione Lavoro, depositata oggi). Passate ai ‘raggi X’ le condotte tenute da un impiegato di una società. Per l’azienda gli addebiti a lui mossi, ossia «avere pronunciato epiteti ingiuriosi nei confronti di alcune colleghe; avere posto in essere molestie sessuali nei confronti di una collega in particolare e di avere anche effettuato un accesso non autorizzato sul conto corrente del marito della donna», sono così gravi da rendere doveroso il suo licenziamento. A sorpresa, però, in Tribunale il lavoratore riesce a vedere dichiarata l’illegittimità del provvedimento emesso dalla società, e quest’ultima viene condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro e «a pagargli una indennità risarcitoria fino ad un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, detratto l’aliunde perceptum, oltre alla regolarizzazione contributiva assistenziale e previdenziale». A ribaltare i rapporti di forza provvedono i giudici d’Appello, accogliendo le obiezioni proposte dai legali della società e ritenendo corretto il licenziamento del lavoratore. A loro parere, difatti, sono dimostrati «gli addebiti contestati al dipendente» e sono lapalissiane «la giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione espulsiva». Infine, in secondo grado viene anche chiarito che era consentito alla società «verificare se il proprio dipendente aveva utilizzato indebitamente», come poi accertato, «gli strumenti messi a sua disposizione per fini esclusivamente professionali». Inutile si rivela il ricorso proposto in Cassazione dal lavoratore. Per i Giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, il licenziamento deciso dall’azienda è pienamente giustificato, visti i comportamenti tenuti dal dipendente. Innanzitutto, «la società ha dimostrato che i fatti addebitati al dipendente configuravano un inadempimento ai suoi obblighi contrattuali così elevato da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, non potendo il datore continuare a riporre fiducia in un dipendente che aveva tenuto condotte così gravi ed offensive nei confronti di una collega di lavoro». Logico, quindi, riconoscere la giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione disciplinare, poiché, osservano dalla Cassazione, «i fatti addebitati (comportamenti tenuti dal lavoratore consistiti nelle molestie sessuali avvenute in ufficio nei confronti di una collega e accessi non autorizzati sul conto corrente del marito della stessa collega)» sono di gravità tale da «integrare l’ipotesi della giusta causa di licenziamento e da giustificare, quindi, l’applicazione della massima sanzione espulsiva». In sostanza, «la particolare gravità della condotta porta a ritenere il comportamento del lavoratore idoneo a vulnerare, in maniera irreparabile, il peculiare vincolo di fiducia con la società e, quindi, a considerare il licenziamento sorretto da giusta causa». E per quanto concerne la proporzionalità del provvedimento adottato dall’azienda, non vi è dubbio che i fatti posti in essere dal lavoratore rappresentano «una grave lesione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro» e quindi «il datore di lavoro – tenuto a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro – non poteva non adottare una sanzione espulsiva, a fronte della gravità dei fatti accertati», chiosano dalla Cassazione. E ciò «a prescindere dalla rilevanza penale delle condotte, stante la autonomia, in tema di licenziamento, tra i due procedimenti, disciplinare e penale». Ultimo passaggio è quello riservato alla condotta consistita nell’essersi il lavoratore «procurato il nome del marito della collega» e nell’avere «visionato il conto corrente e riferito alla collega il saldo del conto». Su questo fronte il rilevamento operato dalla società si è concretizzato «a seguito di una richiesta di chiarimenti del titolare del conto corrente». Ciò significa che «gli accertamenti effettuati dalla datrice di lavoro rientravano nella categoria dei cosiddetti controlli difensivi», ossia «verifiche dirette ad accertare comportamenti illeciti e lesivi dell’immagine aziendale e costituenti, astrattamente, reato». Peraltro, «si è trattato di controlli disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa», e quindi «non può ritenersi in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori, atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta a terzi estranei all’impresa». Per chiudere il cerchio, comunque, dalla Cassazione annotano che «vi era un accordo sindacale, volto a disciplinare le modalità di svolgimento dei controlli sui lavoratori, in cui era prevista la utilizzazione da parte della società delle informazioni estratte nell’ipotesi di sussistenza di indizi di reati», e in questa vicenda «si rientrava certamente in questa fattispecie, perché, da un lato, il dato letterale dell’accordo richiedeva la presenza di “indizi” di reato e non di “prove” e, quindi anche la possibilità di effettuare una prima verifica sulla natura dei comportamenti commessi, ai fini del successivo inoltro alle autorità competenti; dall’altro, perché la contestazione, facendo riferimento ad accessi ad un conto corrente di terze persone e all’avere riferito notizie di esso a persona estranea al conto medesimo, era riferibile inequivocabilmente alla ipotizzabilità di illeciti penali» previsti dal Codice della privacy.