Penale
Diritti dei minori
Video pedopornografico inviato tramite WhatsApp con lo smartphone: legittima la condanna
A inchiodare l’uomo sotto processo è anche il rinvenimento di alcune tracce di files pedopornografici cancellati in un hard-disk presente nella sua casa. Impossibile ipotizzare, in particolare, un uso promiscuo del telefono cellulare.
Cass. pen., sez. III, ud. 19 novembre 2021 (dep. 28 gennaio 2022), n. 3275
Inequivocabile l’invio tramite WhatsApp di un video pedopornografico. Decisiva anche la considerazione che lo smartphone è uno strumento ad uso tendenzialmente esclusivo.
Significativo poi il rinvenimento su un hard-disk di tracce di files a carattere pedopornografico cancellati con un programma informatico ad hoc.
Impossibile, quindi, mettere in discussione la condanna dell’uomo risultato essere proprietario e utilizzatore dello smartphone e dell’hard-disk.
Ricostruita…
Cass. pen., sez. III, ud. 19 novembre 2021 (dep. 28 gennaio 2022), n. 3275
Presidente Aceto – Relatore Scarcella
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta, pronunciata il 3 novembre 2020, è stata confermata la statuizione di condanna di primo grado ed è stata irrogata nei confronti dell’attuale ricorrente C. la pena principale di un anno e due mesi di reclusione e 1.600,00 Euro di multa.
2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il medesimo è stato riconosciuto colpevole dei reati…
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PENALE DIRITTI DEI MINORI 31/01/2022 Video pedopornografico inviato tramite WhatsApp con lo smartphone: legittima la condanna Cerca RICERCA AVANZATA A inchiodare l’uomo sotto processo è anche il rinvenimento di alcune tracce di files pedopornografici cancellati in un hard-disk presente nella sua casa. Impossibile ipotizzare, in particolare, un uso promiscuo del telefono cellulare. La Redazione Cass. pen., sez. III, ud. 19 novembre 2021 (dep. 28 gennaio 2022), n. 3275 Inequivocabile l’invio tramite WhatsApp di un video pedopornografico. Decisiva anche la considerazione che lo smartphone è uno strumento ad uso tendenzialmente esclusivo. Significativo poi il rinvenimento su un hard-disk di tracce di files a carattere pedopornografico cancellati con un programma informatico ad hoc. Impossibile, quindi, mettere in discussione la condanna dell’uomo risultato essere proprietario e utilizzatore dello smartphone e dell’hard-disk. Ricostruita nei dettagli la vicenda, originata da un controllo in materia di stupefacenti, i giudici di merito ritengono, sia in primo che in secondo grado, evidente la colpevolezza dell’uomo sotto processo. Fatale una perquisizione, che ha portato al sequestro di uno smartphone da cui, è emerso poi, «era avvenuta la trasmissione, tramite l’applicazione WhatsApp, ad un’utenza straniera di un filmato dal contenuto pedopornografico». Successivamente si è appurato che il proprietario del telefono «risultava altresì inserito in tre distinte chat di gruppo nell’ambito delle quali gli utenti si scambiavano analogo materiale pedopornografico», e infine, «a seguito dell’estensione della perquisizione presso l’abitazione dell’uomo», le forze dell’ordine «avevano rinvenuto un hard-disk su cui erano stati salvati alcuni files multimediali di tipo pedopornografico» Alla base della declaratoria di responsabilità penale i giudici d’Appello pongono soprattutto una considerazione: «l’unico soggetto in possesso dello smartphone» è risultato essere l’uomo sotto processo mentre «non sono emersi nel corso del giudizio elementi idonei a prefigurare un uso promiscuo dell’apparecchio telefonico anche da parte di altre persone» e poi «il telefono cellulare costituisce uno strumento di comunicazione ad uso tendenzialmente esclusivo». E per quanto concerne l’hard-disk rinvenuto nella casa dell’uomo, i giudici sottolineano che «è stata trovata traccia di files pedopornografici rimossi dal computer», cancellazione effettuata attraverso «una sofisticata applicazione proprio per evitare» che fossero in qualche modo rinvenibili «taluni file che egli deteneva, utilizzava e poi cancellava». Inutili le obiezioni proposte in Cassazione dall’avvocato. Anche per i Giudici di terzo grado, difatti, è evidente la responsabilità penale dell’uomo sotto processo. Il primo dato certo è che «proprio lui fosse l’unico soggetto ad avere la disponibilità dello smartphone», e, viene aggiunto, «non sono mai emersi, nel corso del giudizio, elementi oggettivi, spunti investigativi ovvero specifiche piste alternative tali da poter ritenere configurabile la possibilità di un uso promiscuo, da parte di altre persone, del telefono cellulare», e comunque, osservano i Giudici, «l’apparecchio telefonico costituisce uno strumento di comunicazione ad uso tendenzialmente esclusivo». Per quanto concerne, poi, il peso probatorio attribuito all’hard-disk rinvenuto nella casa dell’uomo, è valutata come «inequivoca la traccia di files pedopornografici, cancellati dal computer», e allo stesso tempo è valorizzata la circostanza che egli «ha deciso, da un certo momento in poi, di utilizzare una sofisticata applicazione per evitare di lasciare traccia dei dati, dal contenuto pedopornografico, detenuti, utilizzati e poi cancellati» e recuperati «a seguito dell’attività espletata dal consulente della Procura». A completare il quadro, infine, la constatazione che l’uomo «risultava inserito in tre distinte chat di gruppo, nell’ambito delle quali gli utenti si scambiavano analogo materiale pedopornografico». Non in discussione, quindi, la responsabilità penale dell’uomo, la cui condotta è chiaramente, osservano i Giudici, «insidiosa e pericolosa, anche in considerazione dei plurimi contatti intrattenuti con altri soggetti parimenti dediti all’utilizzo di video pedopornografici». Confermata, infine, anche la pena, così come stabilita in Appello, ossia «quattordici mesi di reclusione e 1.600 euro di multa». Cass. pen., sez. III, ud. 19 novembre 2021 (dep. 28 gennaio 2022), n. 3275 Presidente Aceto – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto 1. Con sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta, pronunciata il 3 novembre 2020, è stata confermata la statuizione di condanna di primo grado ed è stata irrogata nei confronti dell’attuale ricorrente C. la pena principale di un anno e due mesi di reclusione e 1.600,00 Euro di multa. 2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il medesimo è stato riconosciuto colpevole dei reati di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3 (pornografia minorile) perché, anche per via telematica, divulgava materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto e art. 600 quater c.p. (detenzione di materiale pornografico) perché, consapevolmente, deteneva, in ingente quantità, materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto. 3. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, articolando tre motivi. 3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), ed il correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento alla condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 600 ter c.p., per violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p.. In sintesi, con il primo motivo di ricorso, la difesa censura le argomentazioni con cui la Corte di Appello ha ritenuto l’odierno imputato responsabile del reato di cui all’art. 600 ter c.p.. In particolare, i giudici di seconde cure avrebbero erroneamente fondato il proprio convincimento sulla riconducibilità esclusiva al C. dello smartphone utilizzato per l’invio di un video contenente materiale pedopornografico. Così opinando, la Corte territoriale non si sarebbe in alcun modo confrontata con i rilievi difensivi sollevati in sede di gravame, secondo cui il telefono cellulare in questione non presentava alcuna funzionalità tale da impedirne l’utilizzo anche da parte di soggetti diversi dall’odierno imputato. In definitiva, la statuizione di condanna risulterebbe fondata su di una motivazione meramente apparente, nonché priva dell’indicazione dei criteri prescelti nella valutazione del materiale probatorio. 3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), ed il correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento alla condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 600 quater c.p., per violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p.. In sintesi, con il secondo motivo di ricorso, la difesa censura le argomentazioni con cui la Corte territoriale ha ritenuto l’odierno imputato responsabile del reato di cui all’art. 600 quater c.p.. In particolare, i giudici di seconde cure avrebbero errato nel ritenere decisiva in tal senso la circostanza relativa al rinvenimento di tracce di immagini su un hard disk in possesso dell’attuale ricorrente. Ed infatti, tali immagini non avrebbero nulla a che fare con l’oggetto del presente giudizio, in quanto antecedenti a quest’ultimo. Il Collegio, inoltre, avrebbe omesso di motivare in ordine ad un ulteriore profilo evidenziato in sede di gravame, rappresentato dalla circostanza che i pochissimi contenuti di materiale pedopornografico rinvenuti sul telefono del C. erano stati accidentalmente scaricati da quest’ultimo. 3.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. e applicazione del minimo della pena ex art. 133 c.p.. In sintesi, con il terzo ed ultimo motivo di ricorso, la difesa si duole del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, nonché della mancata applicazione della pena nel minimo. Quanto alle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p., la Corte di Appello avrebbe omesso di indicare le ragioni ostative al riconoscimento del suddetto beneficio, limitandosi ad asserzioni di mero principio. Nè tantomeno il Collegio avrebbe spiegato il motivo per cui gli elementi di segno positivo evidenziati in sede di gravame non costituirebbero indici sufficienti ai fini del riconoscimento delle suddette attenuanti. Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, i giudici di seconde cure avrebbero omesso di motivare in ordine alla specifica richiesta difensiva volta ad ottenere il riconoscimento del minimo della pena. Sul punto, la Corte territoriale avrebbe posto a fondamento della congruità della pena inflitta esclusivamente la gravità dei fatti in contestazione, senza tenere in debito conto gli altri criteri fissati dagli artt. 133 e 133 bis c.p.. 4. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta datata 1 ottobre 2021, ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, con tutte le statuizioni consequenziali. In particolare, il Procuratore Generale evidenzia come il provvedimento impugnato risulti immune dalle dedotte censure motivazionali. Ebbene, la Corte di Appello ha espressamente valutato le doglianze difensive sollevate in sede di gravame, fornendo una motivazione del tutto congrua in ordine alla responsabilità dell’odierno ricorrente per entrambi i reati oggetto di contestazione e rispetto alla quale la difesa non ha opposto alcun elemento decisivo tale da suffragare un possibile travisamento. Quanto alla censura inerente al trattamento sanzionatorio irrogato, i giudici di seconde cure hanno ancorato la commisurazione della pena ai criteri di cui all’art. 133 c.p., ritenendoli prevalenti rispetto ad ogni altra considerazione difensiva. 5. Con atto scritto pervenuto a mezzo PEC presso la Cancelleria di questa Corte in data 10.11.2021, la difesa del ricorrente, nel ribadire che la sentenza impugnata meriterebbe di essere annullata in quanto espressione di un una non corretta interpretazione e applicazione del disposto di cui all’art. 192 c.p.p., e fondata su argomentazioni apparenti, contraddittorie e illogiche in riferimento ai delitti attribuiti all’odierno ricorrente, ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso proposti in favore del proprio assistito. Considerato in diritto 1. il ricorso è inammissibile, essendone palese la manifesta infondatezza alla luce della lineare e limpida ricostruzione dei fatti e delle questioni giuridiche sulle quali il ricorrente chiede a questa Corte di pronunciarsi, senza alcun apprezzabile elemento di novità critica. 2. A tal proposito, ritiene il Collegio utile richiamare, seppure per sintesi, i principali passaggi argomentativi della sentenza impugnata, operazione necessaria al fine di evidenziare come il ricorso presti il fianco al giudizio di inammissibilità dianzi espresso. Il presente giudizio trae origine da un servizio per la prevenzione e la repressione dei reati in materia di stupefacenti, svoltosi presso la villa (omissis) . In tale contesto, il personale della Squadra Mobile della Questura di Caltanissetta aveva eseguito una perquisizione personale nei confronti dell’odierno ricorrente. Ebbene, dal sequestro del suo smartphone era emersa l’avvenuta trasmissione, tramite l’applicazione WhatsApp, ad un’utenza straniera di un filmato dal contenuto pedopornografico. Il C. , inoltre, risultava altresì inserito in tre distinte chat di gruppo, nell’ambito delle quali gli utenti si scambiavano analogo materiale pedopornografico. A seguito dell’estensione della perquisizione presso l’abitazione dell’attuale ricorrente, le forze dell’ordine avevano rinvenuto un hard disk Samsung sul quale erano stati salvati alcuni file multimediali di tipo pedopornografico, nonché un ulteriore telefono cellulare all’interno del quale erano stati trovati diversi documenti di analogo contenuto. Nel ritenere infondato l’appello proposto nell’interesse del C. , la Corte territoriale ha rilevato come non vi fosse alcun elemento ostativo alla declaratoria di responsabilità penale per le vicende in contestazione. In particolare, i giudici di seconde cure hanno precisato come l’unico soggetto in possesso dello smartphone fosse proprio l’odierno ricorrente, nè tantomeno erano emersi nel corso del giudizio elementi idonei a prefigurare un uso promiscuo dell’apparecchio telefonico anche da parte di altre persone. Peraltro, secondo l’id quod plerumque accidit, il telefono cellulare costituisce uno strumento di comunicazione ad uso tendenzialmente esclusivo. Quanto alla fattispecie di cui all’art. 600 quater c.p., il Collegio ha rilevato come la ricostruzione fattuale effettuata dal primo giudice non lasciava trasparire alcun dubbio circa la sussistenza della responsabilità dell’odierno prevenuto. Ed infatti, nell’hard disk rinvenuto presso l’abitazione del C. era stata trovata traccia di file pedopornografici cancellati dal computer in epoca antecedente all’istallazione di una nota applicazione per la cancellazione sicura dei dati “CCleaner”. Da tale circostanza, i giudici di appello hanno ragionevolmente desunto che l’imputato avesse deciso di utilizzare tale sofisticata applicazione proprio al fine di evitare che rimanesse traccia di taluni file che egli deteneva, utilizzava e poi cancellava. Alla luce degli elementi emersi in sede processuale, la Corte territoriale ha evidenziato come la condotta dell’odierno ricorrente risulti particolarmente insidiosa e pericolosa, anche in considerazione dei plurimi contatti intrattenuti con altri soggetti parimenti dediti all’utilizzo di video pedopornografici. 3. Tanto premesso può procedersi all’esame dei motivi di ricorso. 4. Il primo motivo è inammissibile. 4.1. Il primo motivo di ricorso è invero articolato su censure in fatto ed è genericamente reiterativo di doglianze difensive già prospettate con l’atto di appello, a cui la Corte territoriale ha fornito risposte esaustive in fatto e corrette in diritto. Ed invero, il ricorrente solo formalmente ha indicato una serie di doglianze riguardanti vizi della motivazione della decisione gravata, ma non ha prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni, nè tantomeno ha indicato un’incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione. La censura difensiva, infatti, denuncia congiuntamente, genericamente ed indistintamente i vizi di mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Al riguardo, giova ricordare che il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deve essere dedotto in modo specifico in riferimento alla sua natura (contraddittorietà o manifesta illogicità o carenza), non essendo possibile dedurre il vizio di motivazione in forma alternativa o cumulativa. Ed infatti, non può rientrare fra i compiti dei giudici di legittimità la selezione del possibile vizio genericamente denunciato, pena la violazione dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 39122/2015; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 5730/2019; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 38676/2019). Nello stesso senso, la Suprema Corte ha, in più occasioni, chiarito che il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 19712/2015). 4.2. Non è inutile ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere mirato a verificare che quest’ultima: sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti logicamente “incompatibile” con altri atti del processo (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 41738/2011; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 10951/2006; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 36119/2017). Non sono perciò deducibili, in sede di legittimità, censure relative alla motivazione diverse da quelle che abbiano ad oggetto la sua mancanza, la sua manifesta illogicità, la sua contraddittorietà su aspetti essenziali ad imporre una diversa conclusione del processo. Conseguentemente, sono inammissibili tutte le doglianze volte a sollecitare una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove ovvero ad evidenziare ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 13809/2015). Nè, per altro verso, è consentito il ricorso per Cassazione che, sub specie della violazione dell’art. 192 c.p.p., giunge per fondarsi su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denunzia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 43963/2013; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 13442/2016). 4.3. Nel caso di specie, le deduzioni difensive espongono, in realtà, questioni di merito la cui valutazione è preclusa ai giudici di legittimità. Sul punto, va rilevato come la Corte di Appello abbia fornito puntuale ed esaustiva risposta alle censure sollevate con gli atti di gravame, sia saldandosi alla motivazione della sentenza di primo grado, sia disattendendo puntualmente le argomentazioni – in fatto – spese con i motivi di appello e sostanzialmente reiterate con il presente ricorso. In particolare, ad avviso dei giudici di seconde cure, costituisce un dato certo, alla luce della ricostruzione effettuata in sede di merito, che l’unico soggetto ad avere la disponibilità dello smartphone fosse proprio l’odierno ricorrente. Ed infatti, non sono mai emersi nel corso del giudizio elementi oggettivi, spunti investigativi ovvero specifiche piste alternative tali da poter ritenere configurabile la possibilità di un uso promiscuo, da parte di altre persone, del telefono cellulare. Peraltro, l’apparecchio telefonico costituisce uno strumento di comunicazione ad uso tendenzialmente esclusivo, che è stato rinvenuto in possesso proprio del C. nel corso della perquisizione personale svolta dalla Squadra Mobile della Questura di Caltanissetta. Anche in sede di legittimità, la difesa si limita ad effettuare mere congetture ed alternative letture dei dati probatori emersi, prive di qualsivoglia riscontro di carattere oggettivo e decisivo. 5. Il secondo motivo è parimenti inammissibile. 5.1. Privo di pregio, in quanto generico ed essenzialmente articolato in fatto, risulta infatti il secondo motivo di ricorso. Giova premettere che tra i requisiti del ricorso per Cassazione vi è anche quello, sancito a pena di inammissibilità, della specificità dei motivi. Ed invero, il ricorrente ha non soltanto l’onere di dedurre le censure su uno o più punti determinati della decisione impugnata, ma anche quello di indicare gli elementi che sono alla base delle sue lagnanze. In tal senso, rientra nell’ipotesi della genericità del ricorso, non soltanto l’aspecificità dei motivi stessi, ma anche la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 4521/2005), che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, all’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 39598/2004). In particolare, il requisito della specificità implica, per la parte impugnante, l’onere non solo di indicare con esattezza i punti oggetto di gravame, bensì di spiegare anche le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione, all’uopo evidenziando, in modo preciso e completo, gli elementi che si pongono a fondamento delle censure. 5.2. Nel caso in esame, il ricorrente non si confronta con il provvedimento impugnato nella parte in cui la Corte territoriale ha specificamente disatteso le censure difensive sollevate in sede di gravame e, di seguito, meramente reiterate in sede di legittimità. Sul punto, i giudici di seconde cure rilevano come nell’hard disk rinvenuto presso l’abitazione dell’imputato sia stata trovata l’inequivoca traccia di file pedopornografici, cancellati dal computer in epoca antecedente all’installazione dell’applicazione “CCleaner”. Valorizzando quest’ultima circostanza, il Collegio giunge alla ragionevole conclusione che il ricorrente avesse deciso, da un certo momento in poi, di utilizzare tale sofisticata applicazione per evitare di lasciare traccia dei dati che egli deteneva, utilizzava e poi cancellava. Peraltro, tra i documenti cancellati – e recuperati a seguito dell’attività espletata dal consulente della Procura – vi erano proprio i file dal contenuto pedopornografico. L’attuale prevenuto, inoltre, risultava altresì inserito in tre distinte chat di gruppo, nell’ambito delle quali gli utenti si scambiavano analogo materiale pedopornografico. 5.3. Dinnanzi a tali argomentazioni, il ricorrente sviluppa delle censure in fatto, chiedendo a questa Corte di procedere ad un’inammissibile invasione delle prerogative del giudice di merito, senza, tuttavia, evidenziare vizi logici nel tessuto argomentativo della pronunzia avversata. Al riguardo, occorre precisare che in sede di legittimità non è consentito invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle dei giudici del merito, chiedendo alla Corte di Cassazione un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. pen., Sez. Un., sent. n. 12/2000; Cass. pen., Sez. Un., sent. n. 22242/2011). 6. Resta da esaminare l’ultimo motivo che parimenti non sfugge al giudizio di inammissibilità. 6.1. Le censure difensive articolate in ordine al trattamento sanzionatorio inflitto non meritano accoglimento per le ragioni che seguono. Giova preliminarmente rilevare che, in relazione al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia priva di contraddittorietà e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della loro concessione o esclusione (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 43952/2017). Il mancato riconoscimento delle suddette circostanze, inoltre, può essere legittimamente motivato dal giudice valorizzando l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, ancor di più a seguito della riforma dell’art. 62 bis c.p. – disposta con la L. n. 125 del 2008 per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 39566/2017). Posto che la ragion d’essere di tale previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l’affermata insussistenza. Tuttavia, il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente che egli faccia riferimento a quelli da lui ritenuti decisivi o comunque rilevanti (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 3609/2011; Cass. pen., Sez. III, sent. n. 28535/2014; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 3896/2016; Cass. pen., Sez. V, sent. n. 43952/2017). In ogni caso, le circostanze attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale “concessione” del giudice, bensì come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente – ovvero non comprese tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 c.p. – che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti da esigere una più incisiva e particolare considerazione ai fini della quantificazione della pena (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 30228/2014; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 14307/2017). Ne consegue che, qualora la relativa richiesta non specifichi gli elementi e le circostanze che, se sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego delle suddette circostanze risulta soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9836/2015). 6.2. Tanto considerato, nel presente giudizio, la Corte di Appello ha evidenziato l’assenza di elementi favorevoli valutabili ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Ed invero, i giudici di seconde cure hanno precisato come il comportamento dell’odierno imputato non possa considerarsi affatto occasionale, bensì caratterizzato per la sua sistematicità ed insidiosità. Inoltre, i precedenti penali che l’attuale ricorrente annovera – ovvero quattro distinte condanne per sette reati, sia contro il patrimonio che contro la persona – precludono di riconoscergli qualsivoglia beneficio. 6.3. Quanto alle modalità di commisurazione del trattamento sanzionatorio, il giudizio della Corte d’appello, che ritiene la pena irrogata dai giudici di merito del tutto proporzionata alla gravità delle condotte oggetto di contestazione, non merita censura. Ed infatti, le vicende ascritte al C. sono state commesse in esecuzione del medesimo disegno criminoso, sicché risultano avvinte dal vincolo della continuazione, con maggiore gravità delle condotte di cui al capo 2) dell’imputazione. Valorizzando i criteri direttivi sanciti dall’art. 133 c.p., i giudici di merito giungono – con ineccepibile ed equilibrato computo – a ritenere congrua la pena di un anno e due mesi di reclusione e 1.600,00 Euro di multa, mediante argomentazioni esenti da manifesta illogicità e, come tali, insindacabili in sede di legittimità. 7. A norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e, conseguentemente, al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla Legge.